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Cronaca di una fuga 3. De la marche

FRANCE | Monday, 6 April 2015 | Views [388]

Ultimo giorno. Il momento di tirare le somme prima di rientrare in città. Da dove viene quindi l’istinto che spinge alla marcia? Non parlo della legge “te l’ha ordinato il medico”, per cui un corpo riceverà una spinta uguale alla forza del suo senso di colpa e contraria alla posizione del divano. No, piuttosto quel pizzico di rabbia nello stomaco, quel fastidio dell’esser qui, fermi, sul posto.

Fossimo nati per correre, ci chiameremmo ‘ghepardi’. Quindi, come prima cosa, ne faccio una questione di ritmi. Ritrovare il proprio ritmo. D’altro canto uno dei segreti delle camminate in montagna é proprio la lentezza, o piuttosto la regolarità dei passi. Movimenti posati, uniformi, rassicuranti. Al contrario di tanti metodi di spostamento a nostra disposizione, la marcia permette di misurarsi con gli spazi, conoscerli, e ritrovare il proprio posto al loro interno. Come suggerisce Frédéric Gros, la marcia rende il mondo più familiare proprio come la frequentazione regolare rafforza l’amicizia.  

Ma non è  solo una questione di mezzi di trasporto. In effetti il fuori, il paesaggio, non è nelle nostre vite che una transizione, un vuoto che ci separa da una meta. Casa-lavoro, lavoro-palestra, palestra-supermercato… il fuori è una parentesi superflua, percorsa di fretta, con una mente sparpagliata fra i pensieri che ci trasciniamo dietro dal luogo di partenza, e le preoccupazioni che già progettiamo sul luogo d’arrivo. Ma qui, in marcia, è il fuori che diventa l’elemento stabile, di valore, di eterna presenza.

È pur vero che anche in marcia si ha la tendenza a sovraccaricare lo zaino e portarsi dietro tutti i problemi di casa, e che all’inizio la mente continua a scappare in tutte le direzioni. Ma la montagna ha un modo tutto suo di rimettere in riga lo spirito. Ogni distrazione, qui, presenta il conto. E dopo essersi perduti tre volte nell’arco di una mattinata e aver allungato una corta passeggiata di almeno tre ore, posso garantire che alla seconda marcia il volume dell’inutile si riduce; alla terza non sarà rimasto altro che lo stretto necessario. Nello zaino come nella testa. 

Potrei descrivere la bellezza della vista, qui, dalla cima del massiccio all’ora che precede l’alba. Ma non voglio. Il silenzio ricorda che la bellezza mal sopporta d’essere tradotta in chiacchiericci. È buffo. I camminatori con cui condivido il panorama dell’Hohneck comunicano bisbigliando. Come se ogni parola di troppo pronunciata in questo momento fosse abusiva. Forse è questa la risposta. Regolarità, presenza, silenzio e bellezza; la marcia guarisce da quell’inutilità che divora l’essenziale.

Aggiungerei alla lista la condivisione, anche se la qualità della condivisione dipende in larga parte dalla sensibilità degli individui coinvolti. Labbra spaccate dal freddo, caviglia che deve ancora riprendersi dall’ultima fatale distrazione, pelle tirata da sole e vento… eppure l’unico vero insopportabile fastidio plana sull’atmosfera grazie alle urla sguaiate di un biondame dallo zaino fucsia e del suo rumoroso accompagnatore. È ora di ripartire. Dopotutto “i boschi sono incantevoli, bui e profondi; ma ho promesse da mantenere, e miglia ancora da percorrere prima di dormire.” (Robert Frost)

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