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Traveling with Emma...

4 dicembre 2013: in viaggio con Emma, emozioni e paranoie di una madre...

UGANDA | Wednesday, 24 June 2015 | Views [456]

Ricordo un giorno di novembre in cui, rientrando in casa con Emma ho pensato...anzi, non era solo un pensiero, era un forte istinto, un suggerimento ad alta voce della mia mente, un bisogno corporeo, dell'anima...ho pensato che avrei voluto partire, fare un viaggio, di quelli che ti impegnano un giorno intero, con lunghe tratte aeree e attese interminabili negli aeroporti di scalo. Ecco, ho avvertito cristallino questo bisogno e le parole sono uscite dalla mia bocca, quasi con un sospiro.
 
Qualche giorno dopo, Ale mi ha comunicato che potevo raggiungerlo in Uganda...

Ho deciso tutto il giorno stesso, appena in tempo per fare le vaccinazioni a Emma e prenotare un volo per Entebbe. Ancora più istintivo della mia prima volta in Africa. Ma con infinite responsabilità in più. Anzi una. La più grande. 
Inutile dire che i nonni, tutti e quattro, mi abbiano subito scoraggiata, così come l'agente assicurativo cui ho chiesto una copertura per gli appena dieci giorni di soggiorno e che mi ha risposto: «Non esistono compagnie che assicurino per viaggi in Uganda, così come per tutti i paesi in guerra...». Che??! Lo ammetto, il mio entusiasmo ha vacillato un po'. Ad un passo dal sogno mi è persino balenata l'idea di rinunciare a realizzarlo, "perchè forse certi sogni devono restare tali". No, questo no! Me ne sarei pentita per il resto della mia vita. Così come mi sarei pentita di aver voluto a tutti costi tornare in Africa con Emma se le fosse successo qualcosa di brutto. Ma allora, la metto sotto una campana di vetro e mi/ci impedisco di vivere e soprattuttovolare?
Fortunatamente, avere un'amica cittadina del mondo (più di una in realtà) mi ha messo a disposizione molti più motori di ricerca di un agente provinciale che probabilmente non ha mai fatto un'assicurazione che non fosse legata ad un'automobile. E così, ho protetto il mio viaggio con World Nomads ...e solo il nome mi ha fatto sentire una zingara felice di nuovo in partenza.
Le mie paranoie di madre mi hanno poi fatto segnalare all'ambasciata italiana il nostro itinerario e la permanenza ad Aber, un piccolo villaggio rurale nel mezzo del nulla, e rifornire la valigia di medicinali pediatrici, una sorta di kit di sopravvivenza pronte a tutto..o quasi. E subito il viaggio mi è apparso diverso. Io mi sono sentita diversa. Quante volte sono stata in Africa, la maggior parte delle quali nemmeno ho palesato la mia presenza all'ambasciata, sempre senza preoccuparmi di eventuali problemi sanitari, sempre con un bagaglio leggero. Ma lo spirito nomade di una madre ha sempre un po' di zavorra, pur volando libero nell'aria.
 
Parto una mattina di dicembre, molto presto. Questa volta non ho la mia valigia gialla, ma una più agile, scura. Emma è sveglia, sebbene siano appena le 5, accoccolata come un koala nella fascia che mi sono fatta cucire dalla mia mamma, in modo da poterla tenere in braccio e allo stesso tempo avere le mani libere per il bagaglio e i documenti di viaggio. I nonni ci salutano commossi, mentre percorro il sentiero obbligato tra le cinghie che delimitano la fila di accesso ai controlli. E mentre loro sentono il cuore pesare sempre di più, potrei giurarci, io inizio a sentirmi leggera. Entusiasta. Sto tornando in Africa e ci sto andando con Emma! Un sogno che diventa realtà grazie alla concomitanza di eventi favorevoli e alla generosità di Ale, un Babbo Natale che sta aspettando la sua bimba che non vede da quasi due mesi.

Dopo lo scalo a Bruxelles, dove benedico la fascia di mia madre per gli spazi interminabili da percorrere velocemente, saliamo sull'aereo che finalmente ci porterà in Uganda. Emma è felice. Felice di viaggiare con la sua mamma, felice di andare da papà. Per lei è tutto una sorpresa: la piccola televisione incastonata nel sedile anteriore, "il film delle patate" (Cattivissimo me 2, ndr), il menù da bambino con un set per colorare in regalo, il gelato servito tra le nuvole, persino il piccolo bagno in cui si può lavare la mani da sola salendo sul water. Si addormenta già carica di esperienze e io mi incanto a guardarla, godendomi la sensazione del viaggio.

Finalmente arriviamo a destinazione che è ormai sera. Il caldo dell'Africa non ci coglie certo impreparate. Vestite di vari strati, ci sbucciamo come due banane e, con Emma nella fascia, mi metto in fila per il visto d'ingresso in Uganda. Comincio ad avvertire un frullo alla bocca dello stomaco: ali di farfalla che si dimenano. Mi commuovo respirando l'aria che, oltre al tepore e all'umidità, porta dentro di me i ricordi. Riapro gli occhi, destandomi dal mio momentaneo stato di trance, e inizio a spiegare alla mia cucciola tutto quello che stiamo facendo e che ci aspetta. Soprattutto papà, che attende oltre la porta a vetri, dopo il recupero bagagli. Emma lo accoglie col sorriso più bello del mondo e lo abbraccia ad intermittenza, scostandosene di tanto in tanto per metterlo a fuoco e non confonderlo con un sogno. Per lei poco importa che tutt'intorno ci sia l'Africa. E' di nuovo col suo papà dopo una lunga mancanza! L'unica sensibile a tutto il resto sono io, sebbene di tanto in tanto assapori anche lo spettacolo del loro incontro.


Trascorriamo la notte a Kampala, nella casa del CUAMM (il datore di lavoro di Ale), dopo un viaggio di quasi un'ora nel buio. Come la prima volta, nove anni fa. Ma ora so cosa mi aspetta il giorno dopo e questo basta ad illuminareciò che mi circonda e a gustarmi la strada. Ripongo in valigia gli indumenti pesanti e mi addormento nel mio bozzolo con Emma.
Il mattino seguente, mentre aspettiamo l'autista dell'ospedale Pope John XXIII, nostra destinazione finale, scendiamo sulla main road a fare qualche spesa per i volontari rimasti ad Aber. Emma, con gli occhiali per il tropposole, avverte finalmente il caldo dell'Africa, vede i suoi colori, la sua industriosa confusione, la marmellata di macchine, i negozi con la merce apparentemente in bilico, le caprette che pascolano tra i rifiuti negli scoli. Chissà cosa pensa, mi chiedo. Chissà se anche lei si sta innamorando, come è successo a me. Io sono ubriaca di stimoli e ricordi. Felice!
Finalmente l'autista arriva. Carichiamo i bagagli sull'ambulanza. E tutto mi appare ancor più familiare, come se mai me ne fossi andata, come se i quasi quattro anni trascorsi in Italia non fossero mai esistiti. Mi sento a casa da sempre. Emma ride nel vedere la jeep carica, accomodandosi tra le valigie e la spesa fatta ieri da Ale. Ma si addormenta poco dopo. 
Io mi sintonizzo sul paesaggio. Forse per la vicinanza geografica, la natura mi restituisce un commovente déjà vu, un'inspiegabile rattoppo della mia vita al momento in cui ho lasciato il Kenya, non come se gli anni altrove non fossero esistiti ma come se li avessi vissuti lì, in realtà, con tutto il loro accaduto.  Uscire dalla città densa di persone scorgendo la vastità, gli alberi, il bush, il verde intagliato da sinuose lingue di terra rossa, i mercati agli angoli della strada, la gente che cammina (sempre), i mendicati che chiedono, le mamme che indossano i colori e portano i loro figli legati sulla schiena, i sorrisi di una terra disgraziata e generosa, il profumo della frutta, i fiumi portatori di vita, il sole caldo a picco, stagliato nel cielo di un azzurro mai scordato. Tutto mi appartiene nel ricordo.


 
 
 

Il viaggio è lungo, ma immancabilmente piacevole e divertente, malgrado ad ogni bump sulla strada le patate rotolino da un angolo all'altro dell'abitacolo e le valigie tendano a rovinarci addosso e schiacciarci contro i finestrini. Arriviamo ad Aber nel buio, sotto ad una pioggia antipatica ma senza grosse pretese.
 
 Entriamo in casa, "quella dell'Africa", e subito Emma ed io cominciamo ad esplorarla, in cerca degli accenni di descrizione fatti via etere da papà. La casa è davvero ampia, con un grande salone d'ingresso, l'angolo cucina, un corridoio centrale su cui si aprono due stanze da letto e il bagno. Tutto ovviamente molto spartano: i pavimenti di vernice rossa e gli arredi costruiti presumibilmente sul posto..esattamente come a Matiri..incantevole! Emma ritrova subito la zanzariera rosa che avvolge il suo lettino come la capanna di una principessa. E io quella più grande che racchiude il letto matrimoniale come in un bozzolo..e ancora una volta si risolve la discontinuità temporale tra questo mio nuovo viaggio e la mia lunga permanenza trascorsa in Kenya. 

La paranoie di madre rovinano i miei primi due giorni di soggiorno (o forse solo qualche ora...), tutta intenta ad evitare qualsiasi contatto accidentale tra il cavo orale di Emma e l'acqua non potabile. Che tra l'altro termina di fluire quasi subito dai rubinetti della nostra dimora e ci ritroviamo, quindi, a dover riempire ogni giorno due grandi taniche dalla pompa manuale all'esterno della casa, oltre a bollire l'acqua per l'igiene personale, il lavaggio delle stoviglie e ovviamente per il filtro per la potabilizzazione. Una scomodità che si risolve presto grazie al nostro spirito d'adattamento (Emma impara subito quanto possa essere divertente lavarsi dentro una grande bacinella azzurra versandosi addosso caraffate d'acqua tiepida) e all'aiuto di Polly, la nostrahouse keeper, che mi aiuta ogni giorno nei lavori domestici e nella preparazione del pranzo (avendo anche più idee sul menù con le materie prime limitate a disposizione), mentre Emma ed io ci concentriamo sull'Africa. Questa volta, infatti, non sono qui per dedicarmi agli altri, ma per vedere questa amata terra attraverso gli occhi di mia figlia e gustare fino all'ultima emozione le sue reazioni di fronte ad una realtà tanto diversa dall'unica che fin'ora abbia sperimentato. 

Conosciamo la famiglia di cui Ale ci ha parlato: Marco e Maria Grazia (un educatore e un medico) qui in Uganda ormai da due anni a mezzo con i loro figli, Francesco e Samuel, rispettivamente di quasi quattro e tre anni. Emma trova dunque due nuovi amici con cui trascorrere la mattinata e il pomeriggio, mentre il suo papà lavora nell'ufficio delle sister per l'informatizzazione dell'ospedale. Forse non si accorge nemmeno dell'Africa tutt'intorno..del sole caldo di inizio dicembre, dei pazienti dell'ospedale che passano e si distraggono per qualche secondo seguendo i nastri colorati del kiwido che i bambini fanno roteare in aria, del canto del gallo che ci accompagna ad ogni ora del giorno e della notte, delle donne che caricano fardelli sulla testa e li trasportano in perfetto inspiegabile equilibrio, delle lenzuola stese sull'erba ad asciugare, del profumo del pranzo a base di fagioli e matoke fritte, dell'aroma degli arrosticini e del reggae parimenti dispersi nell'aria dal pub di Toni, delle capre che ruminano gli scarti della cucina e le immondizie, della musicalità di una lingua non conosciuta, della terra rossa che lascia l'indelebile marchio sulle scarpe, del senso di libertà che restituisce sedersi nel fango a giocare senza preoccuparsi delle conseguenze, delle farfalle che colorano il cielo. O forse si. 



 
 



Riusciamo anche a concederci un safari, per vedere da vicino almeno qualcuno degli animali di cui tanto ho parlato ad Emma, grazie alla disponibilità di Marco che ci accompagna con il suo piccolo fuoristrada. Ovviamente, anche Francesco e Samuel vengono con noi, rendendo la giornata ancora più indimenticabile. 

Sotto gli occhi meravigliati (meravigliosi) di Emma sfilano buffi facoceri, scimmiette dispettose e babbuini, elefanti in compagnia degli affezionati uccellini a caccia di parassiti tra le pieghe della loro pelle incartapecorita, giraffe che camminano oscillando il morbido collo o si grattano le guance con i rami alti degli alberi, mandrie di gazzelle e gnu saltellanti, bufali immobili nell'erba alta, volatili di ogni dimensione e colore. Attraversiamo il Nilo su un traghetto e ci dirigiamo verso le Murchinson Falls, le cascate color caffellatte che fanno da sfondo alla nostra miglior foto ricordo.
 
 


 Una sera, organizziamo una cena a casa di Marco e Maria Grazia, ritrovandoci con gli altri volontari, tutti medici del CUAMM: Giovanni, Sara e Bruno, il capo progetto. Decidiamo di comprare alcuni arrosticini alle bancarelle in paese e qualche birra da Toni, mentre Maria Grazia cucina una pasta simil-pugliese (con verdure lessate locali e le acciughe inviate dall'Italia, insieme a mezza forma di parmigiano,  dalle nonne super premurose di Francesco e Samuel), guacamole, una golosa crema di gnuts (semi di sesamo e arachidi) e pane fragrante. 
Prima di sederci a tavola, aspettiamo ovviamente che i medici finiscano il loro turno in ospedale e si uniscano a noi. Bruno arriva con una capiente borsa di vimini sulle spalle e inizia a raccontare una storia ai bambini incuriositi. Francesco, Samuel ed Emma siedono sul tavolino davanti a lui, mentre con voce complice narra quanto gli sia appena accaduto: «..quando sono passato a cambiarmi, ho  visto tutte le luci accese  in casa mia e ho notato un tipo strano..aveva la faccia metà nera e metà bianca [...] e io gli ho chiesto "che ci fai qui?"...e lui mi ha detto: "Sono l'aiutante di Babbo Natale, ho portato dei regali per tre bambini che abitano qui" [...]»...e solo quando tira in ballo il celeberrimo Babbo, mi rendo conto di dove voglia andare a parare. Dalla cesta, estrae i regali che il fantomaticoaiutante gli ha affidato, per distribuirli ai tre bambini meravigliati che lo ascoltano ingenuamente. Che meraviglia vedere Emma incredula, scartare emozionata il suo regalo, incartato con un vecchio quotidiano, e scoprire un elefantino e una giraffa di stoffa imbottiti. 

Il giorno dopo, mi accodo a Giovanni alla fine del suo turno e gli chiedo di farmi visitare un po' l'ospedale. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Pope John XXIII ha una struttura a padiglioni separati:  la maternità, il reparto chirurgico e la pediatria. Sono presenti due sale operatorie, una sala raggi, che sarà in funzione a breve, il nuovissimo laboratorio (anche troppo sontuoso e tecnologico) e i locali di 

servizio per i pazienti, come la cucina e i bagni. 
Essendo solo il secondo ospedale missionario di cui abbia esperienza, il paragone con il St. Orsola mi risulta inevitabile. L'odore acre delle camerate mi ricorda il mio primo giorno a Matiri, quando l'ho considerato quasi sgradevole. E mi ritrovo a sorprendermi, pensando al fatto che, nel tempo, quello stesso odore sia diventato familiare, a tal punto da non avvertirlo nemmeno più. Le sale operatorie sono semplici stanze con il tavolo e una logora scialitica, aperte quasi direttamente sul corridoio di passaggio. Le ca

merate sono da 10/15 letti ciascuna, con lo spazio appena sufficiente a movimentare il carrello 

delle medicazioni. I pazienti siedono lungo i corridoi, porticati, affacciati su un chiostro centrale erboso. Vedo delle donne che macinano il grano con delle pietre e penso: "Bene, hanno anche modo di continuare le loro attività quotidiane, mentre stanno qui ricoverati...". Invece Giovanni mi dice che alcuni servizi non vengono offerti dall'ospedale, che mette per altro a 

disposizione i locali, e che quindi ognuno provvede per sé. Chi assiste il malato deve occuparsi di fargli da mangiare, portandosi il cibo da fuori, di lavargli le lenzuola, i vestiti, di curarsi della sua igiene personale. In questo modo l'ospedale può tagliare molte spese, alcune fortemente incidenti sul bilancio. E, fortunatamente, qui le persone possono provvedere a se stesse, non sono tra i più indigenti del mondo, come al St. Orsola.

Comincio a farmi delle domande: "Che senso ha venire fin qui a costruire un ospedale così, che funzioni esattamente come uno africano, con le stesse norme igieniche, gli stessi standard assistenziali, gli stessi prezzi...". E, complice Giovanni e il ricordo degli anni trascorsi a Matiri non da semplice osservatrice, riesco a rispondermi. Ha senso perché fornisce comunque un servizio professionale eccellente laddove non si avrebbe assistenza sanitaria alcuna. Ciò che è fuori luogo, è voler esagerare. Che senso avrebbe l'igiene maniacale dei nostri reparti europei se poi le persone, una volta tornate al villaggio, camminano scalze, non hanno servizi igienici, dormono su materassi consumati stesi a terra, si lavano i vestiti e li stendono sull'erba ad asciugare? Ma parimenti, "che senso ha salvare la vita ad un bambino prematuro, curandolo per settimane in ospedale, pensando di aiutare una mamma affranta che invece vuole solo tornare alla sua capanna, alla sua vita, dove l'attendono altri bambini che hanno bisogno della sua presenza per sopravvivere?". Anche Giovanni, rianimatore pediatrico, si fa delle domande. Eppure è qui da più di un mese..
Un'altra differenza che mi salta subito agli occhi durante il mio giro guidato, è l'atteggiamento degli ugandesi, almeno di quelli del bush. Abituata a salutare chiunque incrociassi lungo il mio cammino, conoscenti e non, mi sorprendo che qui sorridano solo se ti conoscono o in risposta alla tua cortesia. Nessuno di loro saluta a prescindere. Nessuno che sorrida senza apparente motivo o tenda la mano. E questo, da un lato, è positivo. Credo significhi che nonhanno bisogno, che non si sentano quasi in dovere di essere accondiscendenti. O forse, semplicemente che siano persone più riservate dei kenioti.

La settimana ad Aber vola, senza nemmeno lasciarmi il tempo di vedere le stelle, il cielo denso che tanto mi manca e che solo lì, lontano dall'inquinamento luminoso, si può vedere. Onestamente, non mi sono ricordata di alzare lo sguardo ogni volta che rientravamo a casa, nel buio, dopo aver giocato tutto il pomeriggio o essere stati al villaggio a fare spese o aver visitato il vicino orfanotrofio. Ero troppo concentrata in basso (solo in termini di altitudine), su Emma e la sua meraviglia, le sue reazioni ad una realtà che a me (adulta) appare tanto diversa da quella che solitamente viviamo, ma che forse a lei sembrava solamente nuova


Rientriamo in Italia separatamente da Ale, che aveva già prenotato il suo volo molto prima di sospettare di poter portare in Africa sua figlia. E il distacco, in un primo momento, è difficile. Ma sapere che il papà la stia seguendo, a distanza di solo un giorno, la rasserena subito. 

Partiamo di notte, questa volta. Dopo la cena e l'ormai consueto "film delle patate", Emma si addormenta e riposa comoda e tranquilla fino a destinazione, mentre io mi siedo meno comodamente per terra e cerco di pisolare con la testa appoggiata al bordo del sedile (soluzione trovata anche da un'altra mamma che, proprio dinnanzi a me, cerca di coprirsi con il lembo della coperta che penzola dai sedili dove dormono beatamente i suoi due bambini). 
Facciamo scalo a Bruxelles più di nove ore ed Emma riesce a godersi pure l'attesa come un gioco, assaporando il viaggio a tal punto da giungere a un'importante decisione: «Mamma, voglio vivere qui, all'aeroporto..perchéio voglio andare da tutte le parti!». 
Del resto, tale madre....

Tags: africa, cuamm, uganda

 

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